martedì 28 luglio 2009

O la Borsa o la vita.


Il commercio odierno, quello della globalizzazione, quello della crisi, sta vivendo una lunga pausa di riflessione. La politica, molto spesso ignorata e corrotta dalle corporation, sta cercando di ricuperare quella posizione di controllo che le compete. Tuttavia, gli imprenditori sono restìi a cedere il passo ad un organo che possa limitare le libertà che sino ad oggi si sono concessi, gli studiosi non trovano il bandolo di una matassa perché troppo aggrovigliata ed incapace di sciogliere i nodi più difficili con i vecchi "storici" modi. Occorre qualcosa di nuovo. Occorre ripensare ad una nuova economia affidandola, finalmente, alle regole di mercato (vecchie e storiche). Un grosso problema al progresso ed alla evoluzione dei mercati è l'ostacolo delle relazioni trimestrali. Ogni trimestre, gli Amministratori Delegati delle imprese si rivolgono agli azionisti mostrando l'andamento dell'azienda. Questo modello di comportamento ha comportato una esasperata ricerca dell'utile, dell'accumulazione di capitale "sporco, maledetto e subito". Credo occorra ripensare a questo modello dando alle imprese un lasso di tempo economicamente più consono per vedere concretizzarsi delle scelte finanziarie. Ciò sarà possibile, ad esempio, se le Borse mondiali "lavoreranno" un solo giorno la settimana in luogo dei 5 attuali. Se si realizzerà questo progetto, gli azionisti avranno tempi più lunghi per valutare l'operato dei propri dipendenti e l'andamento economico dell'azienda. Verranno premiate quelle scelte che in un periodo più lungo daranno dei benefici. Il licenziamento dei dipendenti, lo smantellamento di alcune filiali, la esternalizzazione di diverse produzioni, ecc. impoveriscono un'impresa e i tempi lunghi possono dimostrarlo. Occorre solo "allentare i cordoni delle Borse". Facciamolo. E in fretta.

mercoledì 22 luglio 2009

Il buco nero dell'economia


La recente crisi economica mi sembra sovverta ogni regola di buon senso. Se esiste un problema di tipo finanziario, determinato sulla base di una mancanza di liquidità da parte degli istituti di credito degli Stati Uniti, non capisco come possa essere risolto diminuendo la domanda di prodotti. Purtroppo, è ciò che sta avvenendo davanti ai nostri occhi. Le aziende di varia grandezza, in tutte le regioni del mondo, stanno combattendo gli effetti della crisi facendo ricorso alla cassa integrazione o al licenziamento dei dipendenti. Ora o io non capisco un'acca di economia, e questo lo posso anche concedere, oppure qualcuno sta ciurlando nel manico. Come si può combattere una crisi che non è nata come mancanza di domanda diminuendo i soggetti in grado di sostenerla? Perché le aziende continuano a non ridurre i prezzi delle merci (per far ripartire questa benedetta economia) e si prodigano invece per lasciare senza lavoro milioni di persone? Perché? A chi giova creare disagio e diminuzione della domanda? Il meccanismo, in verità, è assai semplice e l'Italia è un esempio (negativo) in tal senso. Quando le nostre aziende erano in crisi in tempi precedenti all'Unione Europea i nostri statisti svalutavano la moneta. In questo modo, di fatto, il prezzo di un prodotto scendeva anche quando aumentava. Questo perché il valore della nostra moneta era cambiato e per acquistare della merce italiana occorrevano meno dollari che in precedenza. Che cosa sta succedendo, oggi, con una crisi di mercato? Le aziende mantengono alti i prezzi dei prodotti, i magazzini sono pieni di merci invendute e i dipendenti sono forzatamente in ferie, in cassa integrazione o cercano di sbarcare il lunario inventandosi nuove forme di occupazione. Un risultato concreto questa crisi, fino a quando non finirà, è già riuscito ad ottenerlo: ci sta mostrando l'impreparazione e l'improvvisazione alla base dei politici, degli economisti e degli imprenditori di questo mercato oligopolista mondiale.

lunedì 13 luglio 2009

ZU’ TURIDDU


Lo chiamavano “ U ZU’ TURIDDU “, ma il suo nome era Salvatore Eoliano. Salvatore è un nome molto diffuso nella marineria siciliana. Viene imposto dai genitori quasi per accompagnare il neonato sino dal Battesimo, con un augurio di salvezza, sapendo, già da subito, che quel bambino, nuovo nato di generazioni di pescatori, trascorrerà la sua vita sul mare.
Il mare, si sa, è amico ma può essere anche nemico, terribile nemico, animato spesso da venti impetuosi ed impietosi.
Salvatore era stato sempre per mare, ma ora che era incanutito e la sua pelle era riarsa dal sole e dal sale, privo ormai della forza di spingere i remi od anche soltanto di reggere la barra del timone, trascorreva le sue giornate a terra. Brevi scambi di parole con i coetanei, lo sguardo vagante da un’isola all’altra o intento a seguire il lento volo dei gabbiani perso fino all’orizzonte, oltre l’orizzonte.
Conosceva alla perfezione gli umori del cielo, sereno o minaccioso sopra le nuvole; conosceva l’agire dei venti a seconda della direzione da cui soffiavano; conosceva il mare nel suo variare dei colori, dal blu notte all’azzurro e al verde più improbabile; per questo, dall’alto della sua vasta esperienza di pescatore ottantenne, era prodigo di consigli ai giovani che si avventuravano in mare e che lo ascoltavano con deferenza. Ricordava il tempo in cui era stato giovane e in paese lo chiamavano Turiddu, ma ora, da vecchio, era diventato “u zu’ Turiddu”, dove quel “zu’” sta per “zio”, in segno di rispetto e di affetto .
Di cognome si chiamava Eoliano. Una parola che comprende tutto: terra mare e cielo; perché “ eoliano “, come aggettivo, significa esser nativo delle isole Eolie . La sua cara terra, le isole Eolie, così chiamate in memoria di Eolo, il dio dei venti, figlio del dio del mare Poseidone.
Le isole Eolie, le “sette sorelle”, le “sette perle”, come amano chiamarle gli stessi eoliani, sono parte di un mondo cristallizzato nel tempo, che affonda le radici in un passato remotissimo, nel mito, e pur tuttavia protende le braccia verso il futuro .
Zu’ Turiddu, metafora di tale passato e di tale futuro, d’estate veniva circondato, sulla spiaggia di bianca pomice, dai tanti turisti in vacanza che in lui vedevano il saggio, il mito. Il simpatico sapiente pescatore, seduto su uno sgabello di legno a tre piedi, riparava le reti da pesca e con piacere raccontava le storie di quelle terre. Soprattutto era amato dai bambini, quelli dell’ isola e quelli che d’estate arrivavano per le vacanze; era per loro il “ cuntastorie ”, erede degli aedi greci e dei menestrelli provenzali.
Nelle lunghe notti di pesca, alla luce della lampara, zu Turiddu aveva avuto come graditi compagni i libri della biblioteca del paese. Aveva letto quanto più poteva sulla sua amata terra ed ora poteva raccontare, affascinando il suo uditorio, quanto lui stesso aveva vissuto e cosa altri avessero scritto della Sicilia e delle isole Eolie in particolare.
La sua maniera di raccontare conteneva gli echi della cultura greca, della parlata levantina dei bizantini, della luce fantasiosa dei musulmani: era, insomma, la sedimentazione storica della cultura siciliana.
“ Lo sapete che anche Omero nell’ Odissea ha parlato di queste isole? Ha scritto che Poseidone, il re del mare che i latini chiamavano Nettuno, aveva qui la sua reggia di nuvole e teneva la sua corte di zèfiri e raffiche e bufere”.
E così iniziava i suoi racconti e narrava delle sette stupende isole che fronteggiano Capo d’ Orlando, sulla costa della Sicilia principiando proprio dalla greca Agatyrso, cittadina che ebbe poi nome da Carlo Magno in onore del suo paladino più amato, Orlando.
Goethe reduce dal suo viaggio in Italia , aveva scritto che “ l’Italia senza la Sicilia sarebbe stata poca cosa”: Zu Turiddu soleva ripetere che la Sicilia senza le sette perle delle Eolie sarebbe stata una regina senza corona .
Zu Turiddu amava parlare di Stromboli, spiegando alla gente che in greco Strongyla vuol dire trottola e che questo nome era stato dato all’isoletta per via del suo continuo sussultare vulcanico, e venuto buio soleva slegare la sua barca per accompagnare al largo i turisti perché potessero assistere dal mare al meraviglioso spettacolo della “Sciara del Fuoco”. Quando, nel buio del cielo notturno lo Stromboli eruttando lava e lapilli protende le sue braccia di rosseggianti lave nel mare ribollente e mai gli spettatori ne rimanevano delusi.
Citava che Alessandro Dumas scrisse di Stromboli, assistendo ad una eruzione :
“questa notte è una delle più curiose che abbia passato nella mia vita …..
non potevo staccarmi da quel terribile e magnifico spettacolo .
Zu Turiddu descriveva poi Alicudi, la greca Erycusa, ricca di strane sculture inventate dalla lava nel tuffarsi nel mare,“ i perciati ed i fili “ ovvero scogli che paiono ponti e colonne, ed insegnava che Filicudi, Phoenicusa, come dice il suo stesso nome è ricca di felci.
Le piccole folle sulla spiaggia sembravano non stancarsi mai di ascoltare il vecchio pescatore che di ogni parte della sua terra conosceva la geografia, la storia ed il mito.
Diceva ancora di Panarea, che un tempo si chiamava Euonimos e quindi Panarion, che vuol dire distrutta, a ricordo di uno spaventoso sisma che della grande isola fece un corteo di isolotti e scogli. E di Lipari, così chiamata dal re argolide Liparo, che vi aveva fondato una città prima ancora che il suo conterraneo re Ilo fondasse Troia.
E parlando di Lipari, con orgoglio, vantava che è l’isola patria del vino Malvasia, fatto con uve liquorose di succo assorbito dalle radici nelle lave. Di questo buon vino Guy de Maupassant scrisse :
“sembra sciroppo di zolfo . E’ proprio il vino dei vulcani , denso , zuccherato , dorato e con un tale sapore di zolfo che vi rimane al palato fino a sera : il vino del diavolo “ .
A questo punto dei suoi racconti, spesso, si versava un bicchiere, riposando un momento e sospirando e dopo averlo gustato, con calma, schioccava la lingua e continuava il suo racconto.
Di Salina descriveva i sei vulcani, parlava delle genti d’origine africana che la abitarono cinque millenni addietro, dei pirati che ne fecero una loro base nel medioevo, del fascismo che la aveva eretta a luogo di confino per gli oppositori del regime. Narrava, al suo attento uditorio, dell’isola di Vulcano, scoglio lanciato nel Mediterraneo dall’immane esplosione vulcanica dell’isola greca di Santorino in epoche mitiche. Rammentava le continue emissioni di fumi lavici, le putizze che mentre cammini sulla spiaggia ti soffiano sotto i piedi e se non hai le scarpe ti bruciano la pelle e che fanno ribollire l’acqua del mare, l’odore acre di zolfo che impregna tutto l’isolotto. Zu Turiddu non tralasciava di citare, infine, Strombolicchio, l’isolotto filiazione della maggiore Stromboli.
Quando si trattava delle “sue” isole non dimenticava nulla, nonostante la memoria, come amava dire, non fosse più “sua amica”.
Nel parlare mescolava i dati storici e tutto ciò che aveva letto, ai suoi ricordi di vita vissuta ed affascinava grandi e bambini raccontando loro di sue avventure accadute realmente o fantasticate o metà e metà.
Con enfasi raccontava di quando nella sua piccola rete per pesce azzurro era incappato nientemeno che un pescecane che aveva mangiato il pesce appena pescato, aveva lacerato la rete e per poco non era riuscito a rovesciare la sua barca. Narrava di quando un fortunale improvviso e imprevisto lo aveva strappato ai remi e lo aveva gettato in mare, dove era sprofondato fino a un pilastro della Sicilia, sorretta da quel Colapesce, mitico mezzo uomo e mezzo pesce, che si era tuffato per ripescare un anello lanciato in mare dalla regina. Ed ancora parlava di quelle Sirene il cui canto lo distraeva dalla pesca e dalla rotta, sicchè gli toccava poi ritornare a terra dopo essere stato al largo tutta la notte, a reti vuote .
Riversava, nelle menti degli attenti ascoltatori, l’immagine di un polpo, un enorme polpo, che in una notte di luna nuova si era innamorato della lampara accesa a poppa della sua barca, l’aveva abbracciata, strappata al legno, avviluppata nei suoi tentacoli, trascinata sul fondo del mare. Diceva che là, in quel tratto di mare, ancora adesso nei noviluni sembra diffondersi come un chiarore di lampara dal fondo, mentre salgono alla superficie miriadi di bollicine. Era il suo modo di descrivere altrimenti delle chiare manifestazioni di vulcanesimo sottomarino.
A volte raccontava di quando le due spiagge di Salina, Cala Bianca di pomice e Cala Nera di lava, divennero rosse, perchè dal mare era salita una strana marea che fuggiva dall’acqua surriscaldata da rivoli di lava incandescente, si trattava di un esercito di gamberi e di paguri, affluiti a migliaia, marciando compatti. Ogni paguro portava nelle chele due perle e le ragazze dell’isola, liete dell’inatteso dono, se ne fecero collane .
Quando l’estate volgeva al termine ed il mare aveva toni di verde cupo e di grigio, con piccole onde coronate di creste di bianca schiuma, i villeggianti ritornavano alle loro città portando nel cuore e negli occhi le immagini dolci e inenarrabili di quelle spiagge, di quel mare; i bambini dell’isola riprendevano a frequentare la scuola …. e Zu Turiddu rimaneva solo, sul piccolo molo del porticciolo.
Ed un giorno, un giorno qualunque di quell’ autunno, venne il tramonto, venne la sera, era una notte di luna piena. Zù Turiddu, immerso nella sua solitudine, piena di confusi ricordi e di inespressi desideri , avvertì più forte che mai il richiamo del mare, la musica dello sciabordio delle onde e lo squittire dei gabbiani: le voci di quel mare che per tutta la vita era stato il suo mondo .
Salì sulla sua barchetta, accese a prua la lampara, sciolse l’ormeggio, spiegò una piccola vela latina, sedette a poppa impugnando come uno scettro la barra del timone .
La brezza di terra entrò nella vela, sospinse la barca al largo ; lui non si volse mai a guardare indietro le luci del paese che si affievolivano nella nebbiolina, né il brillare intermittente dei fari che suggerivano le rotte: guardava solo avanti, la luce degli occhi spersa lontano …. lontano ……
Era ormai notte: il vento tacque, la vela cadde, la lampara si spense ….

I pescatori delle isole Eolie, per indicare il punto
dell’ orizzonte dove mare e cielo si confondono
sotto lo splendore della stella polare, non dicono
parole come settentrione o tramontana, sussurrano:

“unne si perse u Zù Turiddu” *
• dove si perse lo zio Turiddu

“ I CONFINI DELL ’ ANIMA NON LI POTRAI
MAI TROVARE , PER QUANTO TU PERCORRA
LE SUE VIE, COSI’ PROFONDO E’ IL SUO LOGOS .”
(Aristotile)

martedì 7 luglio 2009

CRA CRA – KAKATOA


Era un bel corvo nero, tutto nero lucido salvo il becco e le zampe colorate di un bel giallo scuro; gli amici uccelli lo chiamavano Cra-Cra, per via di quel suo verso inconfondibile, con il quale accompagnava le lunghe planate tra i rami dei pini, sino a sfiorare le terrazze delle case vicine.
Cra Cra conduceva un’esistenza libera, angustiata solo dalla difficoltà di procacciarsi il cibo quotidiano: buona parte del giorno la trascorreva nella ricerca e nella caccia di bruchi, moscerini ed altri insetti, attività fisiche che lo stancavano alquanto, poiché sentiva di essere uno spirito contemplativo piuttosto che pratico.
Aveva un gran desiderio di comunicare: con gli altri uccelli, con gli alberi e i fiori, con qualunque creatura incontrasse ma si bloccava inesorabilmente davanti a quel suo monotono cra-cra. Un giorno scoprì una finestra, e dietro quella finestra una ragazza. “Ah! potessi instaurare un dialogo!”
Ma non potè far altro che …. cra-cra….. crrraaa-crrraaa ..…
La ragazza udì quel suono, che più che un suono le parse uno sgradevole rumore, si voltò verso la finestra e attraverso i vetri lo vide. Più che vederlo, scorse una piccola massa nera, che agitava appena le ali ripetendo : crrraaa - crrraaa . Ed immediata fu la sua reazione: “ Brutto mostriciattolo così nero e sgradevolmente gracchiante, tu mi porti jella ! “. E per scacciarlo gli lanciò una pantofola. Che infranse il vetro.
Cra Cra riuscì appena a sottrarsi a quella cascata di schegge e volò a nascondersi tra il fogliame del suo albero preferito; non aveva rifugio in un suo nido; in verità non aveva un nido perché non aveva una compagna di voli; anzi, in verità, non aveva mai sentito il desiderio di averne una e quindi non ne soffriva la mancanza .
Con un sommesso cra-cra ripensò alla ragazza dietro la finestra: certo sarebbe stata una bella e buona compagnia ……
Spiccò il volo, compì un largo giro, andò leggero leggero a posarsi su quel davanzale; entrò circospetto, attraverso il vetro rotto, dentro la stanza e non vide nessuno, era vuota.
Venne subito attratto e rimase affascinato, dalle mille cose che là dentro rilucevano: specchi, mattonelle colorate, bianche ceramiche, pizzi e trine, barattoli, tubetti, bottigliette e vasetti d’ogni tinta .
Che regno! Il regno del colore ! e lui invece ….così nero, così nero !
Ed ecco la grande idea, che lo avrebbe certamente trasformato in un qualcuno di gradevole, di desiderabile: con il forte becco e gli adunchi artigli cominciò ad aprire tutti quei “cosi” colorati, e si passò sulle penne, alternativamente ad una a una, quei colori: il biondo ed il fulvo per capelli, il blu dell’ombretto, il rosa della cipria, il carminio e l’arancione dei rossetti; poi si lisciò le penne e si rimirò nello specchio.
Si vide e si ammirò, emise un interminabile “ooohhh” di meraviglia e di soddisfazione, e scoprì di essere diventato un “kakatoa”, uno di quei bellissimi variopinti pappagalli che rallegrano le foreste amazzoniche .
In quella entrò nella stanza la ragazza, che forse voleva truccarsi, ed anch’ella fece un “ooohhh” di ammirato stupore . “Un pappagallo! Un pappagallo in casa mia!!” e iridato di tutti quei bei colori, dal giallo al violetto, con qualche scorcio di nero e senza lo sgradevole gracchiare che emetteva quel corvaccio nero cacciato via poco fa. Allungò lentamente la mano verso quell’esotico uccello, che andò a posarvisi delicatamente, ad accovacciarsi poi nell’incavo tra la spalla e il collo, come forse aveva visto talvolta in televisione, da fuori la finestra, fare ai pappagalli dei pirati; si sentiva completamente a proprio agio, come fosse a casa sua, tra i tappeti multicolori e le spalliere delle sedie.
Ora non gli mancava che cantare, che parlare, comunicare con la sua neo - padroncina, ma certo non con quel suo brutto cra-cra; ci pensò proprio la padroncina, a poco a poco, a insegnargli qualche parola, qualche suono :
e per prima cosa gli dette un nome e gli insegnò a pronunciarlo: Kakatoa ! Ormai Cra-Cra, diventato Kakatoa, non aveva più la preoccupazione di procacciarsi di che mangiare, era sempre riccamente provvisto di semini attraenti e di mangimi succulenti che la ragazza traeva da pacchetti e scatoline, anch’essi colorati .
Tutto bello, tutto perfetto, tutto gradevole, salvo che per
la catenina che lo teneva legato al trespolo.

giovedì 2 luglio 2009

Dolce ricordo


Ogni tanto dall’oceano della memoria sale a galla, si dondola sulle onde, affiora il ricordo di un cane, un cane strano, che avevo incontrato da giovane nei boschi delle Alte Madonìe.
Era un cirneco dell’Etna, un bellissimo esemplare, l’inconfondibile corpo slanciato, le lunghe zampe pronte alla corsa ed al salto, le orecchie dritte protese in avanti a captare ogni suono, ogni rumore, il manto raso color terracotta: si chiamava Rock.
Era compagno inseparabile e fedele di un cacciatore, con il quale viveva quasi in simbiosi e da bravo cacciatore anche lui si era sempre comportato, stanando tra i tronchi, gli arbusti e le rocce, gli animali del bosco, per poi riportare al padrone le prede cacciate.
Me lo ricordo soprattutto perché un giorno di quel tempo lontano aveva compiuto una azione contraria alla sua natura di cane, e per di più di cane da caccia, riaccompagnando delicatamente alla sua tana, tra gli sterpi del sottobosco, un leprotto ferito da una fucilata.
Per quel suo gesto lo avevo accarezzato, e lui aveva tenuto la testa sotto la mia mano, mi aveva leccato le dita, guardandomi con una luce amorevole negli occhi.
Da allora le nostre strade si sono separate: le sue vie lo conducevano dalla cascina al bosco, dal bosco al paese, alla fontana e di nuovo alla cascina; le mie percorrevano, talvolta freneticamente, il mondo lontano, tra mari, cieli, città e palazzi: nulla che assomigliasse al paese della mia giovinezza, che aveva sempre conservato un posto in un angolo della mia mente, del mio cuore.
Vi ritornai, dopo molti anni; non più sulla sgangherata bicicletta di allora ma su una lussuosa potente automobile; attraversai la piazza del paese, che era come la ricordavo, sempre la stessa, gli stessi alberi, forse un pò più alti, più fronzuti, dominata dalla facciata della chiesa parrocchiale, piena della cascata degli scampanii.
Mi diressi verso il bosco, del quale riconoscevo i colori ed i profumi, mi fermai davanti all’antico, e amico, casolare, spinsi il pesante cancello di ferro arrugginito sotto l’arco di pietra ed entrai.
Un cane mi si avvicinò, malfermo sulle zampe spelacchiate, le orecchie volte in basso, la coda penzoloni; ma gli occhi, lo sguardo, mi dicevano qualcosa, e così come Argo dopo venti anni riconobbe Ulisse così egli mi riconobbe ed io riconobbi lui, ROCK, il cirneco cacciatore.
Il suo regno non era più nello sconfinato bosco, ma ormai ristretto nei limiti dell’aia; il suo trono stava sugli scalini che salivano alla fontanella, suo araldo era il gallo dall’ orgogliosa cresta fiammeggiante e frotte di pulcini sciamavano tra le sue zampe pigolando chiassosamente.
Da un cassettino della memoria venne riproiettato sullo schermo della mia mente il gesto un tempo compiuto da quel cane, un inconsueto atto di gratuito amore, e nella sua testa certamente si accese il ricordo della mia carezza di allora.
Mi si strofinò contro le gambe, un leggero guaito, uno sguardo di dolcezza inesprimibile, scodinzolando, scodinzolando...ma la coda si agitava sempre più lentamente…sinché si fermò.