giovedì 2 luglio 2009

Dolce ricordo


Ogni tanto dall’oceano della memoria sale a galla, si dondola sulle onde, affiora il ricordo di un cane, un cane strano, che avevo incontrato da giovane nei boschi delle Alte Madonìe.
Era un cirneco dell’Etna, un bellissimo esemplare, l’inconfondibile corpo slanciato, le lunghe zampe pronte alla corsa ed al salto, le orecchie dritte protese in avanti a captare ogni suono, ogni rumore, il manto raso color terracotta: si chiamava Rock.
Era compagno inseparabile e fedele di un cacciatore, con il quale viveva quasi in simbiosi e da bravo cacciatore anche lui si era sempre comportato, stanando tra i tronchi, gli arbusti e le rocce, gli animali del bosco, per poi riportare al padrone le prede cacciate.
Me lo ricordo soprattutto perché un giorno di quel tempo lontano aveva compiuto una azione contraria alla sua natura di cane, e per di più di cane da caccia, riaccompagnando delicatamente alla sua tana, tra gli sterpi del sottobosco, un leprotto ferito da una fucilata.
Per quel suo gesto lo avevo accarezzato, e lui aveva tenuto la testa sotto la mia mano, mi aveva leccato le dita, guardandomi con una luce amorevole negli occhi.
Da allora le nostre strade si sono separate: le sue vie lo conducevano dalla cascina al bosco, dal bosco al paese, alla fontana e di nuovo alla cascina; le mie percorrevano, talvolta freneticamente, il mondo lontano, tra mari, cieli, città e palazzi: nulla che assomigliasse al paese della mia giovinezza, che aveva sempre conservato un posto in un angolo della mia mente, del mio cuore.
Vi ritornai, dopo molti anni; non più sulla sgangherata bicicletta di allora ma su una lussuosa potente automobile; attraversai la piazza del paese, che era come la ricordavo, sempre la stessa, gli stessi alberi, forse un pò più alti, più fronzuti, dominata dalla facciata della chiesa parrocchiale, piena della cascata degli scampanii.
Mi diressi verso il bosco, del quale riconoscevo i colori ed i profumi, mi fermai davanti all’antico, e amico, casolare, spinsi il pesante cancello di ferro arrugginito sotto l’arco di pietra ed entrai.
Un cane mi si avvicinò, malfermo sulle zampe spelacchiate, le orecchie volte in basso, la coda penzoloni; ma gli occhi, lo sguardo, mi dicevano qualcosa, e così come Argo dopo venti anni riconobbe Ulisse così egli mi riconobbe ed io riconobbi lui, ROCK, il cirneco cacciatore.
Il suo regno non era più nello sconfinato bosco, ma ormai ristretto nei limiti dell’aia; il suo trono stava sugli scalini che salivano alla fontanella, suo araldo era il gallo dall’ orgogliosa cresta fiammeggiante e frotte di pulcini sciamavano tra le sue zampe pigolando chiassosamente.
Da un cassettino della memoria venne riproiettato sullo schermo della mia mente il gesto un tempo compiuto da quel cane, un inconsueto atto di gratuito amore, e nella sua testa certamente si accese il ricordo della mia carezza di allora.
Mi si strofinò contro le gambe, un leggero guaito, uno sguardo di dolcezza inesprimibile, scodinzolando, scodinzolando...ma la coda si agitava sempre più lentamente…sinché si fermò.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ci sono animali così umani...ma così umani...complimenti per le emozioni che suscita il racconto.
Giorgio